Paolo Campiglio. 
Comitato scientifico della mostra

I maestri di Brera, gli allievi lomellini, i compagni di corso Quando nel 1999 Cesare Tallone abbandona l’insegnamento all’Accademia Carrara di Bergamo perché ha vinto il concorso per la cattedra di pittura all’Accademia di Brera occupando il posto vacante lasciato dalla morte del suo maestro Giuseppe Bertini nel novembre 1898, il giovane Giuseppe Amisani (Mede, 1881 – Portofino, 1941), iscritto nel 1899-1900 alla scuola del nudo diviene un ammiratore appassionato del professore, oltre che uno dei primi allievi che frequentano lo studio milanese dell’artista. In quegli anni è allievo di Tallone anche Ambrogio Alciati (Vercelli, 1878 – Milano, 1929), iscritto nel 1897 grazie a una borsa del Comune di Vercelli, un pittore che diverrà presto suo seguace e collaboratore, tanto da sostituirlo nelle aule di Brera dopo la sua scomparsa nel 1919. Entrambi assimilano dal maestro l’arte di cogliere l’attimo e il sottile intuito di introspezione psicologica nella ritrattistica, ma anche la fondamentale lezione del disegno dal vero e la possibilità di sviluppare nella pittura di ritratto o paesaggio quella continuità problematica relativa alla figura nell’ambiente che costituisce una delle peculiarità italiane di tradizione dell’Ottocento nel Novecento. Per un artista che si formava a cavallo tra Otto e Novecento, proveniente dalla Lomellina, l’iscrizione all’Accademia di Brera, dopo la frequentazione dell’Istituto Roncalli di Vigevano o della Civica Scuola di Pittura di Pavia, era una vantaggiosa occasione di crescita non solo nel confronto con i maestri, ma anche con gli altri giovani talenti provenienti da tutta Italia. Come ha evidenziato Sergio Rebora, con particolare riferimento alla realtà di Vigevano, nel primo decennio del Novecento si assiste alla formazione di una vera e propria scuola municipale di pittura e scultura, emanante dal magistero e dalla personalità pubblica di Ambrogio Raffele, confortata dalla frequentazione dei corsi dell’Istituto Roncalli e soprattutto dell’accademia braidense nel magistero, fra gli altri, di Enrico Butti e Cesare Tallone: con autori come Luigi Bocca, Mario Ornati, che però opererà a Milano, Luigi Barni, i fratelli Ferdinando e Cesare Villa che tendono a riportare in sede cittadina, precocemente, le novità del simbolismo internazionale si assiste a un’apertura del linguaggio figurativo in rapporto alla tradizione del realismo ancora molto influente a livello locale. Il contatto con l’ambiente metropolitano servì quindi, in tal caso, a rafforzare una scuola locale, in una visione municipalista tesa a rinnovare i termini del linguaggio, in un momento in cui una borghesia sempre più attiva e intraprendente si affermava come committenza sensibile al nuovo. Tale fioritura locale ebbe una tappa significativa nella presenza all’Esposizione di Milano del 1906 che, almeno per i fratelli Villa, segnò il momento di partenza di una felice carriera. Sul magistero di Tallone a Brera e sulla sua straordinaria capacità di catalizzare le forze migliori della pittura italiana il recente studio di Gigliola Tallone chiarisce, a fronte di una documentazione archivistica di prima mano, i termini e le connessioni con le generazioni dei pittori che si susseguono tra il 1899 e il 1919 tra le aule dell’Accademia e gli studi dell’artista, forse il ventennio più fecondo e ricco di fermenti creativi, con i quali anche gli allievi provenienti dalla Lomellina si sono trovati a dialogare, sebbene con differenti accenti e inclinazioni. Pellizza da Volpedo, il più noto degli allievi di Tallone a Bergamo, scriveva al tortonese Brunati che il “metodo d’insegnamento […] a me pare giustissimo – Tallone fa copiar le statue perché gli scolari si abituino a far grandioso e abbiano agio a studiar bene il chiaroscuro e il disegno, tanto copiando le statue quanto pitturando vuole che il modello e copia siano uno allato all’altro e a uguale distanza da chi copia facilitando i confronti […] Tallone ha molta passione nell’insegnarci ed è con noi prodigo di avvisamenti non so se ella lo conosce, se lo figuri in un uomo di statura media con due baffetti neri, occhi penetranti, pieno di energia – ci conduce spesso nel suo studio per farci vedere i lavori che sta facendo”. Sono brevi testimonianze di una stima e di un rapporto fecondo, non iscrivibile al consueto dialogo tra maestro e allievo, ma che si configurerà come una vera amicizia tra i due, data la facilità al dialogo e la disponibilità di Tallone. La lettera di Pellizza converge, infatti, in una serie di testimonianze di allievi e di colleghi all’Accademia di Brera, come Vespasiano Bignami e Enrico Butti, che tracciano un ritratto del maestro Tallone come di un uomo affabile, cordiale, pronto a discutere con i propri discepoli e a condividere con loro anche momenti di svago e visite alle mostre: era un pittore antiaccademico per eccellenza, allergico alla burocrazia, pronto ad accogliere allievi senza badare all’età o all’anno di iscrizione, disponibile ad accettare all’interno del suo corso le giovani allieve, contro ogni regola. La proverbiale apertura di Tallone – coniugata a una sapiente esperienza dei “trucchi” del mestiere, in direzione non solo del disegno, come si è visto, ma anche di una pittura di getto in cui la problematica della resa “ottica” si tramutava da mero espediente tecnico a esperienza di vita, un mezzo per conoscere e interpretare la realtà – si traduceva oltretutto nell’ampia libertà lasciata agli allievi, con rispetto verso quelli che stilisticamente si differenziavano dal suo operato. Il curriculum degli studenti di Tallone prevedeva la frequentazione del corso del nudo (scuola libera del nudo) e in seguito le due annualità del corso speciale di pittura, ma vi era una libera circolazione tra i corsi e gli allievi potevano seguire il maestro anche nello studio. Il giovane pittore vigevanese Ferdinando Villa (Vigevano, 1875-1928) che ebbe la sorte di frequentare il corso di pittura all’Accademia di Brera proprio nell’anno 1898-1899 quando la cattedra lasciata da Bertini fu temporaneamente coperta dal Bignami in attesa di Tallone, assaggiate solo in primavera la disponibilità e il metodo del maestro proveniente da Bergamo, vicino agli allievi e non disposto alle formalità di altri colleghi, compila con alcuni compagni una richiesta di ripetere l’anno poiché “il prof Tallone fece conoscere un campo di studi nuovo che assai vivamente [gli allievi] comprendono, ma con sommo dolore si vedono costretti troppo presto a dover lasciare”. È una testimonianza significativa del carisma che il maestro suscita fin dall’inizio a Brera per i suoi interessi, per il suo approccio pittorico giudicato innovativo. Un approccio che Villa svilupperà in seguito nella propria produzione in direzione del simbolismo internazionale, riportandolo, con il fratello scultore Cesare, nella dimensione municipalistica. Si è scelto di presentare in questa sezione opere emblematiche del maestro di Brera, che volutamente pongono in luce le ricerche appartenenti al primo Novecento, anni in cui si concentra la maggior parte degli allievi poi divenuti a loro volta pittori noti, quella generazione “in rivolta” che di fronte ai “forti” dipinti, dalla cromia accesa o dalla connotazione estremamente intima del segno, ma soprattutto nell’approccio vitale alla pittura o nel dialogo con i maestri antichi possono aver assimilato la lezione, in positivo o in negativo, magari metabolizzandola nel giro di pochi anni: parlo di autori come Donato Frisia, Aroldo Bonzagni, Carlo Carrà, Aldo Carpi, e Achille Funi, o i più maturi frequentatori dello studio come Anselmo Bucci e Leonardo Dudreville (tutti a metà degli anni dieci) e di molti altri successivi come Alberto Salietti o lo stesso Guido Tallone, figlio del pittore. E, tra quelli, i meno noti compagni lomellini come Mario Ornati e Silvio Santagostino che hanno frequentato insieme a Carrà, Funi, Carpi, condividendo l’ammirazione nei confronti dell’artista e di cui in questa sede si vuole dare testimonianza. Dipinti come Mareggiata a Pegli o Veduta di Chioggia (entrambi di incerta datazione, senza dubbio posteriori al 1900) appartenenti alla serie dei paesaggi en plen air, più rara rispetto alla nota ritrattistica, sono testimonianza evidente dell’arte di Tallone nella resa luministica e nella vivida partecipazione emotiva alla natura. Di fronte a queste opere non è impropria l’etichetta di “naturalismo lombardo”, quando si consideri lo spessore materico della pennellata, la sapiente fusione dei toni nel comune denominatore luministico; certo è che la viva partecipazione al flusso della natura che emana dalle cromie esasperate, dalle sbavature violente, rivela tutta l’inquietudine del mistero del fenomeno naturale. Tallone incitava, infatti, i suoi allievi a dipingere dal vero nella natura e spesso organizzava con alcuni di loro delle escursioni in campagna, ma più che la resa del reale importava al maestro trasmettere mediante la pennellata il sentimento naturale di una compartecipazione intima al flusso del creato. Vigevano, 22 settembre 2007

Gigliola Tallone 20 Luglio 2024. 

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